icerbox Montanari mito by Unknown

autore:Unknown
Format: epub

74 Montanari, Gusti del Medioevo cit., pp. 238-244.

75 Vedi oltre, pp. 58, 71.

76 Sada-Valente, Liber de coquina cit., III, 64. Cfr. Capatti-Montanari, La cucina italiana cit., p. 61.

77 F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, CXXIV (a cura di A. Borlenghi, Milano, Rizzoli, 1957, pp. 387-390).

78 M. Montanari, Il sugo della storia, Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. 54-56.

La pasta cambia status

Nel 1958 Emilio Sereni pubblicò un saggio pionieristico sulla storia della pasta, intitolato Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno: i napoletani da «mangiafoglia» a «mangiamaccheroni». È un capolavoro di metodo, un ‘classico’ che ha ancora molto da insegnarci. In particolare, ha da insegnarci che la storia dell’alimentazione è un campo di studio complesso, in cui si incrociano economia e cultura, tecnica e politica, materiale e immaginario; e che tutto questo concorre a determinare quelle che Jean-Louis Flandrin chiamò «strutture del gusto». Strutture perché il gusto alimentare non è una realtà gratuita, legata al capriccio individuale, ma affonda le radici in precise realtà storiche. Sereni si propose appunto di capire quando, come e perché il gusto dei maccheroni si diffuse a Napoli, fino a giustificare l’appellativo ‘mangiamaccheroni’ con cui i napoletani furono chiamati a iniziare dal XVII secolo. Analizzando una quantità di fonti, sia documenti d’archivio sia testi letterari e poetici, Sereni mostrò che quell’appellativo prima di allora non era un segno identitario dei napoletani, bensì dei siciliani – come abbiamo già visto79. Il motivo lo sappiamo: proprio la Sicilia era stata, nei secoli centrali del Medioevo, il luogo di incubazione della cultura della pasta – e in particolare della pasta secca – in area italiana. Poi successe qualcosa.

Nonostante la sua crescente diffusione, la pasta non era ancora diventata un alimento base – quello che in inglese si definirebbe staple food. A Napoli era considerata un prodotto di lusso, o almeno, qualcosa di cui si poteva e si doveva fare a meno nei momenti difficili: un bando del 1509 proibisce di fabbricarla negli anni di guerra o di carestia, per non ‘sprecare’ grano80. Ma attorno al 1630 avvenne un radicale cambiamento. Il mercato della città di Napoli si era impoverito in seguito alle frequenti carestie e al malgoverno spagnolo. L’approvvigionamento di carne, fino ad allora accessibile anche agli strati inferiori della popolazione, diminuì drasticamente. I napoletani, tradizionalmente detti ‘mangiafoglie’ perché la ‘foglia’ (ossia il cavolo) era, assieme alla carne, la principale integrazione del pane nell’alimentazione quotidiana, furono costretti a inventarsi un nuovo regime alimentare.

Nel frattempo si erano diffuse a Napoli le due macchine-chiave dell’industria pastaria, attestate in Italia fin dal XVI secolo81: la gramola, cioè l’impastatrice meccanica, ispirata a quella che si usava in campo tessile per maciullare il lino e la canapa; il torchio, ispirato a quello per pigiare l’uva, che pressava la pasta nei fori di una trafila metallica onde ottenere le forme volute. Ingegno per li maccheroni lo chiama Cristoforo Messisbugo, cuoco e intendente generale alla corte degli Este a Ferrara, nel libro di cucina che fu pubblicato nel 1549, l’anno dopo la sua morte82.

Ancora una volta osserviamo una coincidenza di interessi

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